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A metà marzo scorso ho avuto l’occasione, e quindi la gioia, di vivere alcune giornate di spiritualità a Torino, al Collegio Artigianelli. Il Murialdo ha vissuto lì per 44 anni, al servizio della gioventù povera ed abbandonata in quel momento storico particolare. Era la seconda metà dell’800 carica di fermenti di rivoluzione sociale, industriale e politica che ha portato all’unità d’Italia.

Come altre volte, ho avuto modo di visitare il museo che raccoglie la storia del percorso di vita del Murialdo, dalla sua nascita alla sua morte, passando per tutte le tappe salienti delle sue scelte e della sua missione per rispondere con generosità al Signore che lo ha chiamato ad essere al servizio della gioventù in difficoltà.

Questa volta mi sono fermato in particolare nella sua stanza personale (che è quella originale) composta dallo studio e dalla camera da letto, dove è morto il 30 marzo 1900.

E sono stato attratto in particolare dal suo tavolo da lavoro, dalla sua scrivania, dalla sua biblioteca, dalla sua poltrona.

Quanto ha letto, studiato ed approfondito per trovare il metodo più consono ed efficacie per rispondere alle problematiche giovanili? Era laureato in teologia, ma i suoi principi e metodologie pedagogiche da dove le ha ricavate? Oltre che dai suoi viaggi, quanti manuali ha ripassato?

Quanti discorsi ha preparato? Lo sappiamo che ci sono molti volumi al riguardo. Alcuni scritti sono di circostanza, di burocrazia, ma la maggior parte toccano problematiche giovanili, appelli alle autorità civili e religiose, collegamenti e confronti con istituzioni formative di varia impostazione, prediche e riflessioni religiose, studio e preparazione per la scuola di religione che faceva all’Istituto delle Fedeli Compagne di Gesù.

Anche il suo epistolario è molto voluminoso. Quante lettere a confratelli, ad ex artigianelli, ad amici, a benefattori. Quanto ha curato i rapporti personali, la conoscenza delle positività e delle difficoltà, la condivisione del proprio pensiero educativo e spirituale con quella forma di tenerezza che le era propria?

La sua poltrona. Senz’altro le serviva per riposare, quando era stanco o ammalato. Ma me lo vedo in colloquio con giovani artigianelli o confratelli giuseppini bisognosi di un confronto, di una buona parola, di un sostegno, di una guida spirituale, di un padre che, come il Padre misericordioso della parabola, porta pace, serenità e la tenerezza dell’Amore di Dio.

don Marco Demattè